Il trauma del corpo non riconosciuto ai tempi del COVID-19

Circolano molte riflessioni in questo tempo così strano in cui il mondo intero si è trovato da un giorno all’altro catapultato in una nuova “era”, quella della pandemia. Abbiamo attraversato emozioni e stati d’animo diversi e complessi, abbiamo riassaporato la possibilità di fermarsi, di riflettere sui mali del mondo, dall’ingiustizia sociale all’inquinamento, tutte tematiche che sono diventate ancora più evidenti sotto gli effetti del lockdown, ma siamo stati anche invasi da grandi paure, prime fra tutte quelle del contagio e della morte, riverberate con puntuale cronicità da tutti i notiziari, e conseguenze economiche nefaste per moltissimi settori che hanno letteralmente messo in ginocchio intere fette di popolazione. Abbiamo attraversato, stiamo attraversando, un periodo sconosciuto e tempestoso.

Ora il dibattito sembra bizzarramente essersi polarizzato su due posizioni, quella della cautela estrema e del terrore che ripartano i contagi, con un impatto molto forte sui luoghi della socialità e dell’educazione come la scuola, e quella che molti hanno definito del “negazionismo” di chi non vuole continuare a vivere dietro una mascherina, di chi pensa che tutto sia stato pianificato a tavolino da perversi dominatori del mondo. Devo dire che entrambe le posizioni mi lasciano insoddisfatta e sento emergere sempre di più il bisogno di un pensare che sia più profondo e più ampio, che sappia cogliere anche ciò che non si vede, come il pensiero psicoanalitico da sempre ci invita a fare.
Vorrei parlare del corpo, il corpo che sento così coinvolto eppure così dimenticato, così assente. E’ incredibile come si stia parlando continuamente di questioni che riguardano il corpo, forse come non mai, e al contempo non parliamo mai del corpo e dei suoi bisogni. La parte di corpo che stiamo vivendo, quella di cui stiamo parlando è la parte malata, o che può ammalarsi, che può contagiare o essere contagiata. Il corpo sociale è relegato al distanziamento. Per alcuni di noi soprattutto se adulti questo può non essere un grande impedimento sul piano personale, magari se non si fa una vita mondana, si ha comunque la possibilità di vivere la vicinanza coi nostri cari, e anzi in alcuni casi questo può essere stato un periodo di maggiore relax e meno stress. Ognuno col proprio “orticello” che in molti casi può essere piacevole. Ma noi non siamo solo corpo individuale, corpo privato, anche se da anni ormai viviamo in una società in cui l’individualità ha preso il sopravvento rispetto alla comunità, noi siamo anche corpo sociale con tutto un immaginario connesso che ha forgiato nei secoli il modo di pensarsi e di pensare, di stare in relazione con l’altro. Se pensiamo a questo immaginario di fatto ci accorgiamo che siamo esposti ad uno stravolgimento estetico. Ogni volta che usciamo ci imbattiamo in volti coperti per metà di cui fatichiamo a rintracciare l’espressione e spesso viene meno lo stesso riconoscimento. Sarà capitato a tutti come a me in questo periodo di non riconoscere qualcuno. Stiamo assistendo a una sorta di frammentazione percettiva, dove perdo l’armonia dell’insieme, il corpo intero.
Possiamo appellarci al pensiero che tutto ciò sarà transitorio e che torneremo presto alla normalità, ma nel frattempo sta accadendo qualcosa che fatichiamo a vedere. Lavoro da anni accanto alle madri che aspettano un figlio, e quindi inevitabilmente mi occupo di bambini e famiglie. Forse molti di voi non sanno che nella maggior parte degli ospedali dall’inizio della pandemia le donne che devono partorire non possono avere vicino nessun familiare, neanche il marito. Devono partorire da sole. Un momento così delicato e importante, e già reso vulnerabile dall’esperienza dell’ospedalizzazione che per molte donne non sempre è un’esperienza positiva, è diventato qualcosa da viversi in isolamento senza l’affetto delle persone care. Ma ancora più forte è il fatto che le madri devono indossare costantemente la mascherina. Madre e neonato vivono i primi giorni del riconoscimento reciproco con la madre che ha il volto coperto per metà. Il primo pensiero tra madre e bambino che si incontrano è il contagio, è il pericolo. E’ accaduto anche che in molti ospedali sono stati separati madre e bambino per sospetta positività, onde convenire alla fine che non ci fosse alcun pericolo particolare per l’interazione madre neonato ai fini della salute. Questo significa che veniamo al mondo e quel primo sguardo, quel primo volto che sigilla quell’innamoramento portentoso tra madre e bambino, vengono privati ai nati nell’epoca del Covid. Quell’esperienza estetica fondante, come descritta da Meltzer, che racchiude dentro di sè anche l’esperienza emotiva e affettiva, dove la bellezza del mondo esterno, la bellezza del volto materno mi penetra, e mi fa sentire io stesso bello, mi fa fondere in un’esperienza estetica ed estatica, è al momento interrotta, disturbata. Sistematicamente. Da quei primi momenti di incontro si attiva tutto un processo di interazione fisiologico e psichico insieme, dove le sincronizzazioni e regolazioni reciproche tra madre e bambino passano attraverso il corpo, attraverso i loro corpi. Comprendiamo l’impatto traumatico su scala sociale di simili configurazioni? Possiamo continuare a parlare solo di contagi da un lato o negazionismo dall’altro? Il bambino cerca volti, cerca espressioni in cui riconoscersi e per molti bambini questa è un’esperienza seriamente in pericolo. Dobbiamo riconoscere il trauma reale che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Stanno riaprendo le scuole, di ogni grado, e ai bambini spetterà confrontarsi con adulti che hanno la mascherina, questo anche per i più piccoli che frequentano un asilo, parliamo di 3-4 anni e anche meno. L’adulto non può cullare, accarezzare, non può asciugare una lacrima o soffiare il naso. Anzi la famosa “candela” al naso che appunto quasi tutti i cosiddetti “mocciosi” hanno è motivo per restare a casa o essere controllati dal medico. Pensiamo a quel momento così delicato della febbre nel bambino, la mamma ti tocca la fronte, magari anche un termometro mentre lei ti abbraccia in attesa del responso, quel momento che segna il confine tra la quotidianità e il sociale, e il fermarsi, il raccogliersi nel privato, l’aver bisogno di cura…giorni speciali quelli del bambino con un po’ di febbre….Quanto serve a volte la febbre anche per rispondere a bisogni emotivi e psichici. Ora un termo scanner all’entrata della scuola, la rilevazione della temperatura sistematica e con tanta esposizione della propria intimità, perché se hai la febbre, se non stai bene tutti lo sanno, sei esposto, davanti a tutti. Per un bambino è importante che questo accesso al corpo avvenga in una modalità affettiva, intima. Posso immaginare che gli adulti coinvolti ce la stiano mettendo tutta per diminuire la distanza emotiva.
Non posso però che trovare perturbante e angoscioso tutto ciò, non posso non pensare che dobbiamo fare attenzioni che quello che si sta mostrando su larga scale è un impatto traumatico importante. Non possiamo dimenticare che il movimento libero di un bambino nello spazio è fonte di sviluppo emotivo e psichico, il movimento libero di un bambino di andare verso il prossimo e scambiare espressioni costruisce la possibilità stessa di pensare e di sentire. Cosa può sentire quel bambino che deve reprimere questo impulso verso l’adulto che si occupa di lui? E lo deve fare anche verso i compagni, ore di scuole senza potersi avvicinare, neanche all’intervallo. E quella totalità del volto piena di sfumature e di inclinature emotive così importante per poter comunicare, sentire e prevedere l’altro. Dove è tutto questo? Mentre sono piccolo e devo costruirmi un’idea del mondo, dove è tutto questo patrimonio di esperienza e sapere?
Purtroppo faccio fatica a vedere che ci sia una presa in carico importante di questi aspetti, sento parlare poco dei bambini, degli adolescenti, ma in generale di quanto il corpo abbia bisogno di essere vissuto pienamente per restare in salute. Lontana da qualsiasi ipotesi di negare una realtà o un pericolo virale, mi chiedo però quanto alto sia il prezzo da pagare, mi chiedo se per un rischio probabile non stiamo andando incontro ad un rischio certo, quello del benessere sociale e della persona. Non serve precisare che ciò che per alcuni bambini con certe famiglie possa essere un disagio passeggero o comunque ben ammortizzabile, per altri, quelli appartenenti a famiglie più fragili, con più sofferenza e incertezze economiche, sia una situazione travolgente.
Se non possiamo cambiare lo stato delle cose, se non possiamo cambiare la politica di un dato momento, o comunque gli eventi che si susseguono e sui quali abbiamo poco potere, se non possiamo evitare un trauma che sta avvenendo, mi chiedo però se possiamo essere almeno testimoni benevoli e soccorrevoli di chi quel trauma lo sta subendo. E per farlo dobbiamo iniziare a pensare a questo trauma, dobbiamo iniziare a dare uno spazio a questo corpo dimenticato, relegato, separato. Stiamo attenti a non cadere nel pericolo di essere quei professionisti che seduti sulla propria poltrona fanno il conto solo con contagi più o contagi meno, negazionismo o pedissequo ossequio delle regole, con qualche perplessità che il paziente appena entrato possa contagiarti o meno, ma che ciò sia normale e così via aspettando tempi migliori. Perché se così fosse significherebbe che ci stiamo comportando come quei genitori che tante volte abbiamo conosciuto nei nostri pazienti che non sono stati in grado di proteggere, di riconoscere, di venire tempestivamente in aiuto. Sì certo, è confortante, la riflessione che ciò che facciamo, questo strano e nuovo modo di comportarsi, sia un modo di proteggere se stessi e l’altro, sia un impegno sociale, una lotta per i più fragili, ma non possiamo più non vedere quello di cui ci stiamo privando. Per il bambino la protezione è un adulto che ti accolga tra le braccia. Io credo che noi dovremmo perorare la “causa” del corpo, si dovrebbe spingere perché venga riconosciuto il danno relazionale che stiamo causando a questa generazione. Invitare a pensare strategie diverse, dove ci sia prudenza e attenzione nei confronti del virus ma anche soddisfazione dei bisogni di base che aiutano a crescere, aiutare a pensare le vie di mezzo, il buon senso. Credo che stiamo facendo grande fatica a fare ciò perchè viviamo in una civiltà che da secoli mette a rischio l’integrità del corpo, la possibilità di pensare che veniamo al mondo interi, vitali e bisognosi irrimediabilmente dell’altro, dell’altro che ci accolga e ci contenga. C’è una ferita narcisistica molto potente sul corpo che credo ci portiamo dentro culturalmente tutti, uomini e donne. Sono ferite che hanno in sè qualcosa di mortifero, che ti fa dubitare sulla tua potenzialità e sulla tua forza. Siamo tutti impauriti e incerti dalla possibilità di essere in salute mentale e fisica, ancor prima che di essere impauriti dalla malattia. E ora che nel calduccio delle nostre certezze è venuto a insediarsi un nemico invisibile, “democratico”, che va avanti col contagio, per cui senza possibilità (apparente) di filtro, senza distinzione tra chi è più saggio e chi lo è meno, tra chi è più consapevole e chi meno, ecco che iniziamo a vacillare e la capacità di pensare ed essere fecondi può diventare difficile anche per noi analisti.

Ornella Piccini

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